(a cura di Enrico Nai)
La nascita del borgo e la sua affermazione.
Nel delineare i primi momenti della storia economica di Vigevano, il lavoro dello storico si scontra innanzitutto con la penuria di fonti, da un punto di vista sia documentale sia archeologico.
Come poco sappiamo del periodo e delle modalità in cui nasce la nostra città, scarni sono anche i dati relativi allo stile di vita e di sussistenza dei suoi primi abitanti.
Prime attività degli abitanti di Vicogeboin – nome originario dell’abitato, come risulta dalla prima citazione documentale, risalente a marzo 963 – furono senza dubbio l’agricoltura e la pastorizia, condotte a livello di semplice sussistenza. È probabile che si facesse un limitato ricorso anche alla caccia, sfruttando la numerosa selvaggina della zona, ma questa divenne presto appannaggio della sola aristocrazia, come testimoniano numerosi diplomi.
Oltre a tali attività, un ruolo crescente sarà giocato dal commercio: la felice collocazione sulle principali vie di comunicazioni (in particolare la via che univa Milano a Vercelli e al Piemonte, attiva sicuramente in epoca romana) e sul fiume Ticino favorivano infatti il passaggio di merci e uomini: la collocazione geografica dell’abitato, posto su un promontorio alluvionale, garantiva al contempo la sicurezza dei collegamenti. Di ciò danno testimonianza i vari ritrovamenti archeologici e la presenza di un porto fluviale, citato per la prima volta in un documento del 1010, la cui fondazione si perde nei secoli precedenti.
I fattori geografici sopraccitati, accanto ad una relativa vicinanza con i principali centri urbani della zona, nonché le alterne vicende storiche, consentirono al borgo di affermarsi progressivamente e di rafforzare il proprio tessuto economico.
Punto di svolta in questo senso fu l’affermarsi del dominio visconteo che, diversamente da molte altre città, spesso trattate con il pugno di ferro, avvenne senza violenze o intrighi per Vigevano. Luchino Visconti, podestà del borgo a partire dal 1337, promosse la costruzione di nuove infrastrutture militari (Strada Coperta, Rocca Vecchia etc.): queste comportarono un deciso riassetto urbanistico, trasformando il tenore di vita dei suoi abitanti da agricolo a commerciale.
I progressi economici e civili della città portarono, in pochi decenni, alla codificazione dei primi statuti vigevanesi, voluti da Bianca di Savoia – signora di Vigevano e madre del duca Gian Galeazzo Visconti – e redatti nel 1392: loro scopo era di mettere ordine nelle sempre più complesse istituzioni civiche e normarne le complesse attività. Sempre a Bianca, si deve la nascita del Mercato del Lunedì, primo mercato stabile e retto da un’apposita legislazione; per favorire la più ampia partecipazione, era addirittura inclusa una multa per le famiglie, che non avessero preso parte attiva al mercato, tramite la messa in vendita di merci o oggetti.
In questo periodo, si assistette anche alla diffusione della lavorazione e tessitura della lana, operati in piccoli laboratori cittadini e rurali. Iniziata probabilmente come attività secondaria dell’economia famigliare, tale manifattura beneficiò della vicinanza al mercato di Milano, centro laniero di primaria importanza nel Basso Medioevo, e, tra i secoli XV e XVI, permise una buona esportazione di prodotti finiti: nei primi anni del 1500, le fonti parlano infatti di una produzione di circa 1200 pezze di panno all’anno.
Il passaggio alla dominazione sforzesca fu anch’essa favorevole nel caso di Vigevano, che ne godette i frutti soprattutto durante il ducato di Ludovico il Moro (1477 – 1500). Oltre alle numerose opere architettoniche (Piazza Ducale, Loggia delle Dame etc.) e militari, il duca profuse particolare impegno nel favorire lo sviluppo agricolo: promosse l’allevamento e fece costruire nuove fattorie all’avanguardia, per un suo sfruttamento razionale; con l’aiuto di Leonardo da Vinci, completò inoltre il riassetto delle opere irrigue e dei mulini del circondario, ottimizzando l’uso di questa importante risorsa.
L’innovazione fondamentale, apportata dal Moro, fu però l’introduzione della bachicoltura e della gelsicoltura, provenienti dal Veneto, cui il duca aveva dedicato parte della sua tenuta agricola più importante, la fattoria Sforzesca. Tali colture, inizialmente considerate poco adatte al clima, si diffusero rapidamente e, nel corso di alcuni decenni, vennero ad acquisire un ruolo preminente nell’economia vigevanese.
La manifattura serica, la prima monoproduzione vigevanese
Inizialmente la coltivazione del baco da seta rivestiva un ruolo secondario nell’economia della città, ancora dominata dalla tradizionale produzione laniera, e, per alcuni decenni, fu destinata alla semplice produzione di filati grezzi. A metà del XVI secolo, tramontata definitivamente l’epoca sforzesca a favore del dominio spagnolo, si verificò però la crisi e la rapida scomparsa della manifattura laniera, soffocata dalla forte concorrenza estera – soprattutto inglese – e dal modificarsi della domanda interna.
Nei medesimi anni, a fianco della produzione di seta grezza, compare anche la tessitura dei filati, promossa inizialmente da imprenditori milanesi. La produzione raggiunse un buon livello già sul finire del secolo, come testimoniano i dazi esercitati dal comune sulle esportazioni dei prodotti semilavorati e dei tessuti: intorno al 1580, si registravano 750 lire di dazi annui, saliti a 1830 nel 1603. Si trattava di una produzione, condotta a livello artigianale da diversi nuclei famigliari, che affiancavano tale attività al semplice reddito agricolo; la vendita dei manufatti era poi affidata a mercanti, che provvedevano alla loro commercializzazione ed esportazione.
I tragici eventi degli anni successivi (la carestia del 1628/1629, seguita dalla peste del 1630 e dalle guerre degli anni ’40) causarono una drastica riduzione della produzione ma, a differenza del comparto laniero, non la sua definitiva scomparsa. Nel corso di tutto il XVII secolo, la domanda sostenuta aveva favorito una diffusione capillare della sericoltura a tutti gli stati sociali, accompagnata da processi imitativi della produzione. A testimonianza di questo fervore produttivo, nel 1686, un gruppo di mercanti-imprenditori ottenne dal Senato di Milano, il privilegio di costituirsi in un Collegio dei Mercanti; tale organismo, dotato di un proprio statuto, aveva lo scopo di regolamentare la produzione e la commercializzazione dei prodotti, stabilendo precisi criteri di qualità e quantità.
Nonostante il rapido mutare dei dominatori della città (spagnoli, francesi, austriaci ed infine i Savoia, a partire dal 1745), durante i primi decenni del XVIII secolo, la manifattura serica rafforzo il suo primato tra le attività economiche vigevanesi. Dati del 1750 parlano di 305 telai presenti in città, gestiti da 144 proprietari, i quali davano lavoro a circa 1500 persone, tra tessitori ed operai generici; a questi si univano 26 filatoi, capaci di produrre 15600 Kg di seta all’anno. La produzione era rivolta prevalentemente alla creazione di drappi di seta pura e nastri, nonché di fazzoletti, produzione quest’ultima che sarebbe diventata prevalente sul finire del secolo.
Proprio negli anni del definitivo passaggio della città ai Savoia, nacquero le prime manifatture a carattere industriale, sia nella produzione dei filati sia nella tessitura. Intorno al 1770/1780, si contavano già 22 “filature” – come si chiamavano allora – e 24 opifici, dedicati alla sola tessitura: si trattava di manifatture modeste (nel caso degli opifici, venivano impiegati dai 5 agli 8 telai, usati da pochi dipendenti), gestite da singoli imprenditori, che per la produzione si affidavano al solo lavoro manuale, in modo simile a quanto avveniva nella produzione artigianale/famigliare.
L’inizio del XIX secolo vide due innovazioni fondamentali per lo sviluppo dell’industria serica a Vigevano. Da un lato infatti, si assistette infatti alla progressiva introduzione della forza idraulica nei processi produttivi, specie nella filatura, grazie alla diffusione di nuove tipologie di torcitoi.
Dall’altro lato, emerse una nuova classe di imprenditori, i cosiddetti “fabbricatori”, capaci di gestire in proprio le fasi sia di filatura sia di tessitura: si trattava di un fenomeno in azione già da diversi anni nella città, che si spiega con la necessità di ridurre il frazionamento produttivo e di integrare al massimo l’intero ciclo produttivo. Fu così che, nei primi anni dell’800, si diffusero le filande, opifici organizzati a livello industriale, ed orientati alla lavorazione della seta grezza: nel 1805, si contavano 56 filande, che impiegavano circa 900 persone.
Nei medesimi anni, la tessitura – condotta sempre a livello artigianale e, in percentuale crescente, industriale – viveva un momento di apogeo ma, in poco tempo, la congiuntura politico-economica (il blocco dell’Inghilterra e le misure protezionistiche napoleoniche) causò una riduzione degli occupati e di produzione. Nel 1806, tale comparto creava merci per un valore annuo di 2.348.000 lire e dava occupazione a circa 6000 persone – in una città che, all’epoca, contava appena 10.000 abitanti – ma, dopo appena cinque anni, la produzione crollava a 1.128.000 lire e la quota di lavoratori attivi si riduceva a 3500.
La Restaurazione non comportò dapprima un miglioramento della situazione: il forte protezionismo e un’eccessiva regolamentazione soffocavano infatti le maggiori spinte imprenditoriali e di rilancio del settore. Tale periodo si caratterizzò però dal sorgere di una nuova industria, quella cotoniera, che nel volgere del secolo avrà una buona fortuna nell’economia vigevanese. Introdotta in città nel 1809, la manifattura del cotone seguì uno sviluppo simile a quella della seta: condotta inizialmente a livello artigianale, si limitò dapprima alla mera filatura del materiale grezzo e solo successivamente ci si dedicò anche alla tessitura. La prima imprese industriale nel settore, il cotonificio Corsiglia – Figaro, risale al 1836 e, dopo appena quattro anni, erano già sei le aziende attive in città, con circa 450 occupati.
L’industria serica si risollevò parzialmente nel periodo 1840/1850, grazie alle misure liberiste di Carlo Alberto e ad alcune migliore tecniche. Le filande furono perfezionate dall’introduzione dei telai Jacquard, più efficienti rispetto a quelli tradizionali – era infatti la prima tipologia di telaio, dotato di movimentazione automatica –, e si vide anche l’utilizzo delle prime macchine a vapore. In città si raggiunse il numero massimo di 66 filande mentre, nel comparto tessile – rimasto in prevalenza a livello simil-artigianale, nonostante le innovazioni tecnologiche –, si giunse a contare 15 ditte, con 147 addetti.
Una forte crisi del settore si ebbe a partire dal 1850, a causa della crescente concorrenza (fatale soprattutto per la tessitura, a causa della dimensione artigianale) e della malattia del baco da seta, capace di ridurre fortemente la produzione di materia prima. Intorno al 1861, le filande restavano numerose in città, ma con un deciso decremento di produzione ed occupati, e non compaiono addirittura più cenni alla produzione tessile.
Un esito simile si ebbe anche nell’industria cotoniera: sempre a seguito della temperie economica liberista, intorno al 1845, il settore ebbe un repentino sviluppo con l’affermarsi di sette imprese, che giunsero ad occupare ben 2250 operai. Tali successi furono però effimeri e risentirono presto dell’emergere di un’agguerrita concorrenza e della crescita dei costi delle materie prime: già negli anni intorno al 1860/1861, permaneva ancora una sola filanda in città mentre non sopravviveva nessuna impresa dedicata alla tessitura.
Il passaggio alla moderna produzione industriale aveva così reso Vigevano un importante centro manifatturiero e, già a partire dalla seconda metà del ‘700, le varie compagini statali che la governarono la ritennero sede adeguata di istituzioni economiche essenziali (Camera di Commercio nel periodo napoleonico, e la nascita di banche locali, fra cui possiamo citare la prima, la Cassa di Risparmio di Vigevano, fondata nel 1857). Passato l’apogeo della produzione tessile, la vitalità economica della città si sarebbe presto dimostrata in nuovi settori e, in particolare, nell’industria calzaturiera che, in pochi decenni, sarebbe diventata il nuovo volano dell’economia cittadina.
L’industria calzaturiera e il volto industriale della città
La presenza di calzolai è documentata a Vigevano fin dalla metà del ‘500, e ben presto questa categoria avrebbe costituito una risorsa importante per il suo tessuto economico; nel giro di pochi decenni infatti, nonostante la sua tradizionale esclusione da quelle regolamentate dagli statuti comunali, essa sarebbe riuscita a costituirsi in corporazione fin dal 1608.
Inizialmente si trattava solo di piccoli artigiani che affiancavano un modesto commercio alla produzione; tra questi, alcuni – secondo un’antica tradizione cittadina – erano soliti ad un’emigrazione stagionale, svolta tra novembre e marzo, per seguire lo spostamento della domanda.
Tale quadro si mantenne sostanzialmente inalterato fino alla metà del ‘800, quando nacquero i primi opifici decentrati, gestiti più da artigiani che da mercanti. Nel 1866, la necessità di ridurre i passaggi produttivi e i costi spinse per primi due fratelli, Pietro e Luigi Bocca – figli di un tessitore di seta, i quali volevano abbandonare il declinante lavoro paterno – ad aprire una manifattura in città (nell’attuale via Giorgio Silva), dove per la prima volta applicarono il lavoro di gruppo e a catena alla produzione calzaturiera.
Altra fondamentale innovazione nel settore fu l’introduzione delle prime macchine semplici che, meccanizzando la produzione, la rendevano più snella e integrabile. Prima società che applicò tali strumenti fu sempre la manifattura dei F.lli Bocca, nel 1872/1873; la stessa azienda sarebbe stata anche la prima ad impiegare la manodopera femminile e – grazie a proficui viaggi all’estero – a curare la creazione di nuovi modelli, più moderni e vicini ai gusti della clientela europea.
In quegli anni – contemporaneamente alla nascita di nuove aziende operanti in settori vicini al calzaturiero (concerie, tintorie, brillatoi etc.) – numerosi altri calzaturifici, di piccole o medie dimensioni, proliferarono in città; spesso i loro fondatori erano – secondo un fenomeno tipico della realtà industriale vigevanese e testimone della sua vitalità imprenditoriale – imprenditori di origine operaia che, acquisite le competenze, tentavano l’avventura di un’impresa industriale in proprio. Nella maggior parte di questi casi, le attività erano ancora legate alla produzione artigianale, svolta a mano, e lo scarso uso di macchine consentiva un impiego limitato di risorse economiche.
Solo intorno al 1898-1900, Luigi Bocca – separatosi dal fratello ed aperto uno stabilimento in autonomia – installò le prime attrezzature meccaniche complesse e, passo tecnologico fondamentale, incominciò ad utilizzare per primo l’energia elettrica nel processo produttivo.
Accanto alla produzione industriale, prosperava anche una forte tradizione artigianale, capace di impiegare complessivamente una quota di manodopera superiore alle industrie. Questa manifattura avveniva o in modesti laboratori, orientati ad una maggiore qualità, oppure a domicilio: in quest’ultimo caso, la produzione era svolta secondo il classico schema del Verlagsystem, ovvero il lavorante riceveva la materia prima dal committente (azienda industriale e altri artigiani), insieme a parte dello stipendio, e riceveva il resto del compenso, al conferimento del prodotto finito.
Come accennato precedentemente, gli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900 videro l’introduzione e la successiva diffusione su larga scala dell’energia elettrica, che andrà progressivamente a sostituire in tutte le attività la forza idraulica. Dapprima fornita solo da piccole centrali, interne a complessi manifatturieri (così, ad esempio, avvenne nel caso dell’opificio di Luigi Bocca, che inizialmente otteneva l’energia da una vicina filanda), la nuova energia divenne maggiormente disponibile a Vigevano solo nel 1906, con l’inaugurazione della centrale idroelettrica.
Ad usufruire di tale innovazione, furono da principio le aziende del settore tessile, che ebbero una buona ripresa durante l’epoca giolittiana. L’industria serica vide una parziale ripresa già negli anni 1880/1890, in coincidenza con l’abolizione del corso forzoso della moneta; quest’ultima, insieme all’avvento di politiche protezionistiche, consentì l’ingresso di nuovi capitali nel settore e, nel contempo, avvenne anche il definitivo debellamento della malattia del baco da seta. In città, la produzione avveniva ormai nelle sole filande meccanizzate e, nel 1892, giunse ad occupare più di 1800 operai, concentrati in appena quattro aziende.
Anche l’industria cotoniera beneficiò di un notevole incremento produttivo, grazie soprattutto all’emergere del comparto tessile che, favorendo le esportazioni, acquisì un peso crescente nel ciclo produttivo. Nella prima decade del nuovo secolo, le aziende vigevanesi impiegavano così più di 1700 persone.
Il settore che tuttavia beneficiò maggiormente delle innovazioni tecnologiche e del clima economico di quegli anni, fu però quello calzaturiero che divenne il nuovo settore trainante dell’economia vigevanese. Nel 1907, esistevano 37 calzaturifici in città, con 1470 addetti, cui si aggiungevano circa 8000 unità, tra artigiani e lavoratori a domicilio.
Le necessità legate al primo conflitto mondiale accelerarono la domanda e la conseguente crescita del settore: nel 1920, i calzaturifici erano saliti già a 260 unità, con 8000 addetti, mentre il lavoro a domicilio impiegava circa 7000 persone. La crescita accentuò inoltre alcune tendenze già in atto nel settore; la meccanizzazione dei processi si accentuò mentre, nelle fabbriche, si diffusero forme più sofisticate di divisione del lavoro – il lavoro a giro (divisione dell’attività tra gruppi) e il lavoro a squadra (divisione delle attività tra addetti).
L’avvento del regime fascista, oltre a coincidere con il definitivo tracollo della manifattura serica e ad un forte rallentamento di quella cotoniera, vide l’ulteriore rafforzamento del settore calzaturiero: nel 1937, le imprese erano cresciute a 873, con 13475 addetti ed una capacità produttiva di 90.000 paia giornaliere.
In questo periodo, sorsero nuove tendenze, fondamentali per il successivo sviluppo economico cittadino. In primo luogo, avvenne infatti la nascita e lo sviluppo del settore metalmeccanico-calzaturiero, legato alle nuove esigenze di meccanizzazione della produzione: proprio a Vigevano, nel 1901, era nata la prima azienda italiana del settore, la Ferrari Antonio, cui ben presto se ne aggiunsero diverse altre. La fortuna di tale comparto è da ascriversi in particolare, all’affermazione della produzione di calzature in gomma, che vide sempre la nostra città come protagonista: la società F.lli Rossanigo fu infatti la prima, a partire dal 1929, a specializzarsi in tale produzione in Italia; l’applicazione della gomma alle calzature ebbe un rapido successo e, già nel 1935, ne venivano prodotte 60.000 paia giornaliere solo a Vigevano.
In terso luogo, negli anni ’30, si assiste alla diffusione delle prime sub-forniture, quelle produzioni affini al settore calzaturiero che, fino ad oggi, hanno caratterizzato il sistema economico vigevanese. A favorire la nascita di tali produzioni concorsero molti dei fattori sopraccitati, in particolare la spiccata specializzazione (con la diffusione di imprese produttrici di componenti, quali tacchifici, scatolifici etc.), il decentramento produttivo (piccole società che realizzavano singole fasi del ciclo produttivo) e la prestazione di servizi specialistici (modellisti, mediatori, agenti di vendita etc.).
Negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale, l’imprenditoria vigevanese, per aumentare la fama e la risonanza della produzione cittadina, decise di promuovere inoltre nuove manifestazioni promozionali, tra cui la più importante fu senza dubbio la Settimana Vigevanese. Nata nel 1931 e ridenominata successivamente “Mostra Mercato Nazionale”, era un’esposizione merceologica generica, dove forte era la predominanza dei prodotti calzaturieri: aperta soprattutto ad aziende nazionali, fecero ben presto la loro comparsa anche società tedesche e americane, a testimonianza del prestigio crescente della fiera.
Il periodo di massimo splendore dell’industria calzaturiera si ebbe negli anni 1947-1960. Dopo gli anni bui della guerra, venne a crearsi a Vigevano un ecosistema produttivo unico: accanto ai numerosi calzaturifici, conviveva un forte tessuto di piccole e medie imprese di sub-fornitura, nonché le avanzate officine meccaniche che riuscivano ormai a soddisfare le differenti esigenze del settore.
Nella seconda metà degli anni ’50, erano presenti in città 870 calzaturifici, capaci di realizzare fino a 21 milioni di paia annue e di impiegare 27500 persone. La produzione industriale era affiancata da un nutrito numero di piccole attività artigianali, condotte prevalentemente a domicilio; questo settore era ormai in calo rispetto ai decenni precedenti: i censimenti provinciali del 1961, parlano infatti di un calo del -47,8 % del numero di questi laboratori, rispetto al decennio precedente.
Vetrina della produzione cittadina era sempre la fiera annuale che, a partire dal 1952, verrà chiamata “Mostra Mercato Internazionale delle Calzature”: un evento quindi destinato ai soli prodotti calzaturieri e dotato di una solida presenza e rinomanza internazionale.
Le prime avvisaglie di una crisi del settore si ebbero intorno al 1965/1970, a causa della congiuntura economica sfavorevole, dell’aumentata concorrenza e della crescita dei costi del lavoro. A tale situazione, si cercò rimedio attraverso varie politiche di ristrutturazione: innovazione tecnologica, crescita della qualità produttiva e ricorso ad una sub-fornitura diffusa. In particolare, in quest’ultimo settore, si assistette ad un’accelerazione di tutti i servizi connessi (componenti speciali, fornitura di fasi produttive e servizi specialistici) e ad una spiccata proliferazione di nuove aziende: in questi anni, circa 200, spesso di dimensioni limitate, con circa un migliaio di occupati, più numerosi altri a domicilio.
Le politiche correttive apportate rallentarono il decorso della crisi ma, salvo brevi, periodi di ripresa – come nel 1978/1979 –, non si riuscì a sovvertire totalmente la tendenza. Diverso fu invece il destino del comparto meccanico che, negli stessi anni, rafforzò il suo primato nella produzione nazionale. Le aziende del settore passarono infatti da 157, con circa 2000 occupati, nel 1971, a 233 nel 1981 (con un totale di 2779 addetti): si trattava – come spesso accaduto nella storia economica vigevanese – di aziende di piccole dimensioni, che rappresentavano però il 50 % della produzione nazionale e il 90 % delle esportazioni.
Nel delineare le cause della crisi del settore calzaturiero, da principio furono essenzialmente esterne all’economia cittadina: rincari delle materie prime, concorrenza internazionale ed evoluzione dei consumi (indirizzati ormai verso calzature sportive, estranee alla produzione di qualità vigevanese). A questo quadro, è però necessario aggiungere la ridotta reazione degli imprenditori vigevanesi e delle istituzioni locali.
In primo luogo, la struttura industriale rimase spesso statica, senza rinnovarsi a livello delle modalità di gestione e di distribuzione: ciò rese molte aziende deboli sui mercati ed incapaci di rispondere alle loro mutate tendenze. In secondo luogo, subentrò un progressivo mutamento del significato e dell’importanza della fiera annuale cittadina; a partire dagli anni ’70 e ’80, i mercati internazionali subirono profondi cambiamenti e subentrarono presto nuovi canali di commercializzazione e di pubblicità, che resero progressivamente le fiere insufficienti alla penetrazione di nuovi mercati.
Nel corso dei medesimi anni, avvenne anche il definitivo trasferimento della Mostra Internazionale in altre città, come Bologna o Milano, molto più attrezzate dal punto di vista delle strutture ricettive e di trasporto, della logistica e dei costi. In questo quadro, l’imprenditoria cittadina rimase spesso eccessivamente legata all’evento fiera e sottovalutò le potenzialità di altri canali commerciali, partendo quindi da una condizione di iniziale debolezza.
L’industria vigevanese oggi
L’eredità maggiore del boom del settore calzaturiero a Vigevano è quindi identificabile con il permanere di un sistema produttivo diffuso, capace di integrare in sé tutte le fasi produttive. Nonostante infatti l’ulteriore contrazione di entrambi i comparti (manifatturiero e meccanico), il settore è riuscito a modificare la propria fisionomia, per adattarsi meglio alle nuove esigenze del mercato. Oltre al comparto meccanico, ormai settore di punta a livello produttivo nazionale, le aziende hanno deciso di puntare su una produzione di alta qualità, destinata all’esportazione (con una quota variabile dal 60 al 80 %).
Il sistema si è inoltre aperto alla collaborazione con importanti società dell’alta moda e del settore retail, sia in termini di sub-fornitura di prodotti di pregio, sia per l’accesso ai livelli più alti del mercato. In quest’ultimo senso, un sostegno è garantito anche dalla presenza in città di Assomac, l’Associazione dei Costruttori italiani di macchine ed accessori per calzature, pelletteria e concerie; tale associazione, nel corso degli anni, oltre a tutelare e a normare il settore, sostiene la ricerca di nuove tecnologie, grazie a collaborazioni con varie università italiane ed estere, e garantisce l’accesso delle aziende locali alle principali fiere del settore.
La collaborazione gioca un ruolo fondamentale anche nell’interazione tra le stesse aziende vigevanesi. Sinergie produttive sono necessarie infatti tra il comparto prettamente calzaturiero e quello meccanico, per l’interscambio di competenze e know-how e per la capillare diffusione di tecnologie innovative (taglio computerizzato, uso di nuovi materiali e lavorazioni), utili a sopperire alla mancanza di manodopera.
In ultima analisi, data la storia e la complessità di un tale ecosistema produttivo, è quindi chiaro che la sua sopravvivenza sia legata ad un continuo adattamento alle dinamiche dei mercati attuali; appare perciò necessaria una programmazione di lungo periodo, creata in collaborazione con i principali operatori economici, politici e culturali del circondario.
Bibliografia:
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Ferracin, L’industria vigevanese alle soglie del Duemila. Una lucida analisi tracciata da Bruno Sacchi, direttore dell’Associazione Vigevanese Industriali, in Vigevano Mese, anno I – numero 6, novembre 1987, pagg. 15-21;
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Zimonti, Dalla Cina con furore. Profilo storico del setificio a Vigevano in Vigevano Mese, anno II – numero 12, maggio 1988, pagg. 43-49.
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Enrico Nai
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